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Trap, la poesia del futuro

Aggiornamento: 12 dic 2024

Filippo Saurgnani - La Redazione


“Lama di luce, preludio, l’aria che fugge ogni dubbio, muta al cospetto del tutto, letto del blu, plenilunio. Luna architetto del buio, tetto del cielo, Vitruvio. Luna che inchioda le nubi e ingoia il blu scuro di Luglio”. Di primo acchito sembrerebbe una poesia romantica di metà ‘800, scritta da un giovane Leopardi, in uno stralcio dello Zibaldone. Immaginiamo un poeta che canta alla Luna. Invece vi annuncio, il poeta in questione è un rapper meglio conosciuto come Murubutu nell’incipit della canzone “Wordsworth”.

Spesso notiamo come poesia e musica suonino bene insieme e non siamo certo i primi a trovare congruenze tra la letteratura classica e il rap, ma la domanda che ci poniamo è: possibile che poesia e rap non siano più vicini di quanto pensiamo? In particolare, può, il rap, essere inteso come un'evoluzione della poesia stessa e un suo adattamento ai bisogni di una società moderna sempre più in crescita?

Ma andiamo agli antipodi, cos’è la poesia? Un’arte sublime il cui nome evoca leggende e miti, amori ed armi, lune e soli, un nome immortale nella storia dell’essere umano. Abbiamo notizie di forme di poesia sin dal XXIV secolo a.C. quando, in Mesopotamia, la sacerdotessa Enheduanna incantava il popolo dei due fiumi con inni agli dèi. Nel presente che fine ha fatto il ruolo sacrale della poesia, perché le persone non si interessano più ad essa? Effettivamente, se si prova a chiedere in giro, pochi sono in grado di nominare un poeta contemporaneo, complice di questo è la cultura di massa che spinge ad una formazione basata sull’utile piuttosto che sul bello (questo discorso meriterebbe un articolo a parte). Ciò comunque non basta per spiegare il fenomeno del disinteresse della poesia che fino al ‘900 è stata un’arte globalmente conosciuta, ammirata e studiata.

Forse c’è da chiedersi se la poesia non sia cambiata, un cambiamento così repentino e inaspettato da passare inosservato paradossalmente: andando a scavare nel passato vediamo come per un lungo periodo presso i Greci e Latini, il poeta fosse accompagnato da uno strumento o più, spesso la lira, e si servisse del canto per esprimere i suoi versi.

Si potrebbe sostenere la tesi che la poesia sia tornata musicale e quindi il cantante non sia altro che il nuovo cantore. Rainer Maria Rilke, scrittore del ‘900, parlava del poeta come colui che scrive per bisogno fisico, “chi si sveglia di notte in preda al panico mendicando un verso nuovo, più bello del precedente”(cito da "lettere ad un giovane poeta" R.M.Rilke), questa visione legata ad una vera e propria ossessione per la scrittura la troviamo in grandissima parte del genere rap: “la lacrima in viso, se incido sorrido” (Izi-Chic), “io sono vivo ma non vivo perché respiro, mi sento vivo solo se sfilo la stilo e scrivo” (Caparezza- Jodellavitanonhocapitouncazzo), “C’è chi cerca per noia una relazione e c’è chi vuole farsi male per partorire una nuova canzone” (Fiore Akamono- 5 Bisturi).

Il rap effettivamente riprende vari aspetti della poesia come la metrica, le rime, le assonanze e le varie figure retoriche. Persino lo scopo, in molti di loro, di indagine personale e ricerca del bello.

Un collegamento immediato nella letteratura moderna è la corrente decadentista e quella verista della seconda metà dell'800, le somiglianze con questi rami poetici sono quelle più ricorrenti nello stile di molti rapper: l'evasione da un presente effimero, l’emarginazione e la vita sregolata, la rappresentazione cruda e vera della realtà dove il cantante diventa narratore eclissato che, impotente di fronte al dilagare di problemi e ingiustizie, descrive lo stato delle cose per come stanno, spesso lo scopo è di sfogo o denuncia.

A condire l’immaginario del “poeta maledetto” i rapper sono, spesso, vittime della società: coloro che muovono verso una carriera del genere sono spesso persone provenienti da contesti e famiglie difficili, conoscono il peggio e ciò si rivede nelle loro poesie: il lessico crudo, l’ostentazione di valori immorali quali i soldi, la realtà del mondo delle droghe, come hanno influenzato la loro vita e quelle di milioni di giovani. Il rap può portare a galla realtà che in molti vorrebbero nascondere sotto il tappeto, anche per questo non viene etichettato come forma d’arte vera e propria, ma banalizzato come fenomeno giovanile.

La riflessione che sfidiamo chiunque a fare è di approfondire alcuni artisti contemporanei, senza pregiudizi, e sentire l’enfasi, il pathos, la pura poesia dei loro versi e il messaggio che vogliono lasciare. Lascio sotto alcuni esempi: “Il cuore mio è un organo cavo, quindi sai che non mi pompa, se non mi rimane vuoto. L’uomo è forte a guadagnare, ad amare impariamo dopo. Siamo anime per sempre sdraiate sotto un’ombra di un qualcosa di opprimente, come un salice piangente, e sai che vorrei uscirne con tutte le mie cellule, ma pattino in una pozza di noia come libellule” (Noia- Ernia) “Io sono castelli barocchi in rovina, campi di lavanda, profumo di salvia. Conduco l’angoscia su questa mia via che certe persone chiamano poesia. Ma lo specchio di questo è una vita normale e non posso toccarla neppure rompendolo, come una sorta di autismo sociale che tocca lo spirito e spinge da dentro” (Un Castello Pt.2 – Ozone Dehumanizer).

Per tutta la storia della poesia abbiamo incontrato, dunque, continui mutamenti nella sua forma e nel suo stile seguendo gli influssi, le mentalità e le dottrine del particolare periodo storico, e il rap rispetta molti dei suoi canoni, detto questo, sembra ancora così blasfemo attribuirgli un ruolo poetico nel nostro tempo? E voi cosa ne pensate? Fatecelo sapere.


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