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Train de Vie: un treno per vivere

Aggiornamento: 29 apr 2024

Matteo Cricri - La Redazione


Per celebrare la ventiquattresima ricorrenza della Giornata della Memoria la redazione ha deciso (tra le mille altre iniziative che trovate su questo giornalino e vi invitiamo a guardare) di parlare del film Train de Vie, di Radu Mihăileanu, che con un’eleganza non comune ha saputo, attraverso il filtro della commedia, fare memoria di una delle pagine più nere della nostra storia, l’olocausto.


È l’estate del 1941, e siamo in un villaggio ebraico dell’Europa dell’Est, uno shtetl, quando all’improvviso giunge la voce che i nazisti stanno attaccando i villaggi dei territori circostanti. Il matto del villaggio, Shlomo (il cui ruolo era stato proposto a Roberto Benigni, che però rifiutò per dedicarsi a La vita è bella), ha l’idea di fuggire in Palestina attraverso un finto treno di deportati.


Dopo qualche indecisione gli abitanti del villaggio si convincono e quindi vanno trovati i vagoni del treno. Durante il loro acquisto viene messo ironicamente in risalto anche il lato più venale (secondo lo stereotipo) della comunità dello shtetl, ed è questa la linea di tutto il film, che non cade mai nella trappola di raccontare un’intera comunità (solo perché vittima indiscussa) come infallibile, incorruttibile, e quindi irreale.

Gli ebrei che meglio conoscono il tedesco devono poi allenarsi a recitare la parte dei soldati e a nascondere il proprio accento: le due lingue sono infatti similissime, tanto che all’interno del film lo yiddish è definito “una parodia del tedesco con un pizzico di umorismo” in modo da lanciare un messaggio di radici comuni, fratellanza e amore universale.

Infine vanno tessute le uniformi naziste, che, in una scena molto divertente, devono essere corrette sulle spalle per permettere un saluto nazista turgido e tempestivo.


Terminati i preparativi, il film prosegue seguendo questi finti deportati e il loro treno, all’interno del quale si crea un microcosmo di ebrei, nazisti e comunisti. Le loro relazioni vengono utilizzate per riproporre in modo ironico le dinamiche del mondo esterno, che, in questo modo, vengono messe alla berlina. I comunisti nel treno inseguono un’utopia fantastica e ideale, ma nessuno di loro ha letto Il Capitale di Marx e, ciò nonostante, sono completamente intransigenti con chi “tradisce l’ideologia!” (ovvero è un pelo più moderato). I finti nazisti sono sempre più trasformati in bestie autoritarie, difensori di una routine spersonalizzante che nasce dalla responsabilità di dover gestire il treno, ovvero di salvare il mondo, secondo la malata ideologia nazista.


Il viaggio prosegue tra incontri inaspettati (l’incontro di un altro treno nazista che si scopre essere anch’esso di finti deportati zingari) e prove da superare (il recupero di un ebreo da una prigione nazista), fino a quando tutto si risolve per il meglio: la voce fuori campo di Shlomo, il matto del villaggio, ci rivela che il folle piano ha funzionato e gli orrori del nazismo sono ormai lontani. Il viaggio è andato a buon fine e tutti sono giunti a destinazione: la maggior parte degli ebrei in India e la maggior parte degli zingari in Palestina. Torna qui il messaggio di fondo del film di fratellanza e amore universale, che è più forte anche delle identità nazionali.


Ma è il finale ad elevare questo film oltre ogni immaginazione. Mihăileanu si sofferma su un primo piano del viso di uno Shlomo deperito come mai lo avevamo visto che ancora parla, per poi allargare di colpo l’inquadratura per rivelare il suo berretto a righe, il filo spinato e quindi il campo di concentramento in cui si trova: “Ecco la vera storia del mio shtetl. Beh, quasi vera”. Frame fisso a citare il leggendario finale de I 400 colpi di Truffaut e …stacco al nero.


Eppure Shlomo, nel campo di concentramento, sorrideva. Il treno della vita, per la vita, è la sua immaginazione, che crea questa storia fatta di divertimento, amore, ideologie e umanità a cui aggrapparsi con le unghie e con i denti per non soccombere a un’ambiente che ti vuole disumano e macchina, senza speranza, arreso. Per questo si viene privati del proprio nome, dei propri vestiti, della propria identità. Ma il pensiero non può essere costretto e libero si libra oltre il filo spinato dei campi di concentramento, ancorando l’anima di Shlomo alla realtà, esattamente come il canto della Divina Commedia di Ulisse salvò Primo Levi (raccontato in Se questo è un uomo).

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