1All - Giovanni Fainardi, Ginevra Abbondanza
GAME OVER
Ho deciso di trattare la tematica del rapporto tra genitori e figli perché attualmente intorno a me vedo sempre meno bambini che interagiscono fra loro e in famiglia e preferiscono isolarsi con i loro devices che, secondo me, a quell’età non si dovrebbero avere. Quello che mi interessa è l’aspetto dell’asocialità, la mancanza di interazione e la solitudine. Inoltre, un fattore che mi dispiace ancora di più, poi, è vedere che sono proprio i genitori a non fare nulla per impedire questo processo.
Finalmente, dopo ore di attesa, i miei genitori decidono di andare al ristorante. Per ora siamo solamente in quattro: io, mia madre, mio padre e mia sorella. Mentre tutta la mia famiglia è davanti a me, io sto cercando di battere il mio record sul mio gioco preferito: “Fifa Mobile”.
“Smettila di giocare al telefono e vieni qui a chiacchierare con noi”. Mia madre me lo ripete sempre, ma sa che se le dico di no lei non può fare nulla perché, se togliesse il telefono dalle mie mani, inizierei a frignare e a strillare come uno psicopatico, e di certo non sarebbe piacevole per le sue orecchie. Arriviamo al ristorante, un posto molto grande e spazioso, talmente grande da possedere una sala giochi per bambini della mia età. Mia sorella si precipita subito per giocare con lo scivolo e intanto tra me e me penso: “Che noia! Mia sorella è la classica bambina stupida che pensa ancora a giocare con quei giochi vecchi e marci! Ora esiste la realtà virtuale, dove puoi navigare con fantastiche navicelle spaziali nell’ “iper-spazio”; e perché sprecare tempo a giocare a palla o a saltare sui trampolini?”
Torniamo a casa verso mezzanotte e io sono esausto: ho gli occhi rossi, ho sonno e l’unica cosa che voglio veramente adesso è dormire. Appena mi stendo nel letto entro immediatamente in una fase di “dormi veglia”, ovvero quando stai dormendo ma hai ancora gli occhi semi-aperti, tant’è che noto che mio padre mi toglie il telefono dalle mani, perché lui sostiene che qualsiasi device trasmetta delle onde al cervello, classica bugia che inventa mio padre per tenermi lontano dal telefono. Quando finalmente chiude la porta di camera mia, sprofondo in un sonno pesante. Sto sognando di possedere il tablet più grande del mondo, con mille funzionalità e milioni di giochi bellissimi, e proprio quando sto per aprire la mia app preferita mi sveglio, ma non sono dove dovrei essere: cos’è questo letto bianco e pieno di polvere?
Cosa sono quelle orribili tende arancioni? E quei giocattoli? Non sono di certo i miei: io non ho i trenini e i burattini di legno. Dove sono finito? “Ehi! C’è qualcuno?”, dopo vari tentativi falliti per ottenere una risposta, prendo la decisione di alzarmi da quell’orrido letto e aprire la porta di quella stanza e, un po’ impaurito, capisco che mi trovo in una casa di un’epoca già passata, ma non so bene quale. Sento delle voci provenire dal soggiorno e noto un bambino con un libro in mano: “Cosa? Stai leggendo? Non hai i videogiochi?” gli chiedo, ma lui mi guarda stranito e con la faccia un po’ inclinata, e dopo un paio di secondi esclama: “Shh!” e poi sottovoce “I miei genitori stanno ascoltando la radio!” E che sarà mai la radio? Io conosco la TV, l’iPad o il telefono per ascoltare le notizie, non la radio; e poi per quale motivo su un cassonetto di legno è situata una scatola con uno schermo grigio? Quando a bassa voce lo chiedo al bambino, lui mi prende per i capelli e mi riporta nella camera in cui mi sono svegliato. “Quando parlano alla radio bisogna stare zitti!”, mi dice: “Altrimenti ti perdi tutte le notizie della settimana!”. Forse stavo iniziando a capire: sono poveri!
“Ehi, voi siete poveri giusto? Non potete permettervi i telefoni, la realtà virtuale e i videogiochi.” Lui non capisce e mi guarda con aria interrogativa.
Credo che non conosca tutto quello che gli ho appena detto e così, scuotendo la testa, mi dice di prepararmi per andare a scuola. Quando arriviamo noto troppi bambini giocare a palla, andare in bici, giocare a carte, andare sullo scivolo e rincorrersi; dove sono i telefoni, i videogiochi, le TV e tutto il resto? Cos’è questo inferno?
Non mi manca più di tanto la mia famiglia, voglio solo ritornare alla normalità, a giocare online e a ritornare a fare tutte le cose che facevo prima. Suona la campanella ed entriamo tutti in classe, compreso il bambino che ho conosciuto in quella casa strana, strana tanto quanto la classe in cui mi trovo: c’è ancora la lavagna con i gessetti anziché la lavagna digitale. “Bastaaa!” urlo fortissimo e tutti i miei nuovi compagni si voltano verso di me “Ho visto troppo! Io me ne vado via da questo posto!”. E proprio mentre corro velocemente verso l’uscita della scuola sbatto violentemente la testa e…
“Sii! Sono ritornato alla normalità, sono in camera mia con i miei tablet, il
mio telefono, tutto!”. Riprendo subito a giocare online, a gustarmi tutti i
giochi che ho, ma dentro di me c’è un vuoto e giocare col telefono non serve a colmarlo. Ripenso a quand’ero nell’altra dimensione, nell’epoca passata; e anche se tutto quello che facevano gli altri bambini era strano, avevano delle facce molto più divertite rispetto alla mia quando mi impegno al massimo davanti allo schermo, ed erano tutti amici. Io non ne ho uno. Infilo le scarpe alla velocità della luce e corro verso il parchetto insieme a mia sorella che mi fa conoscere tutti i suoi amici, e poi iniziamo a giocare tutti insieme e per la prima volta nella mia vita mi sento vivo, come se volassi,
e nel mentre che cerco di non farmi trovare a nascondino, ripenso a tutto il tempo perso davanti ai device e mi accorgo solo ora che lo stupido ero io, non mia sorella.
ECO DI LIBERTÀ
In questo racconto ho deciso di trattare il tema del rapporto tra genitori e figli perché mi appassiona e credo riguardi ogni persona da vicino. Soprattutto nell’adolescenza, infatti, è normale avere degli scontri con i propri familiari per formare il proprio carattere e personalità. Nel mio brano ho scelto di trasmettere l’importanza del sostegno di una famiglia, ma anche di inseguire i propri sogni e di affrontare le ingiustizie che si affrontano sul proprio percorso.
È ambientato nel 1816: un periodo in cui la mentalità delle persone era chiusa e in cui i genitori non posavano attenzione ai propri figli; le donne, in particolare, erano semplicemente educate a trovare un marito e badare alla famiglia. Trovo quindi che il romanzo storico sia un modo interessante per presentare questa tematica.
In questo momento mi trovo sul palco del “Royal Theatre” di Londra e sto finalmente realizzando il mio sogno. Sto cantando l’ultima area dell’opera “Così fan tutte” di Mozart davanti a tutte le persone che contano dell’alta società; lo stesso gruppo di aristocratici a cui appartenevo un tempo, ma che aveva iniziato a disprezzarmi da quando avevo decido di inseguire i miei sogni. Io personalmente non l’ho mai trovata una cosa grave.
Perché dovrei vergognarmi di voler coltivare le mie passioni e di avere un’alta considerazione di me stessa?
Questa è la mia occasione per riscattarmi e dimostrare a tutti, specialmente alla mia famiglia, che io, Virginia Sheridan, sono una donna che vale, che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno e che conserva il suo onore perfettamente intatto.
Ricordo che, da piccola, odiavo le giornate monotone, i ricevimenti e i balli a cui ero obbligata a partecipare.
Mia madre, invece, si deliziava nello scegliere nuovi abiti e nell’addobbare la casa per i ricevimenti, aspettandosi che facessi altrettanto.
Ero stata educata dai miei genitori ad essere sempre perfetta per diventare la moglie ideale di un visconte o di un duca; del resto, come diceva mio padre, Richard Sheridan, è meglio puntare il più in alto possibile.
Quello che però né lui, né mia madre Bethany capivano, era che a me quella vita stava stretta.
Odiavo le promenade nel parco, il ricamo, e non mi entusiasmavano gli eventi mondani come balli e corse dei cavalli.
Per questi motivi ero giudicata anticonvenzionale e ribelle dai miei cari, che speravano un giorno avrei superato questa fase.
L’unico evento pubblico a cui partecipavo con gioia erano gli spettacoli all’Opera; quando assistetti per la prima volta ad uno di essi era il 1808, e me ne innamorai. Avevo appena dieci anni quando sviluppai il mio amore per il canto lirico. Sognavo di potermi esibire a teatro in un futuro e di essere ammirata e applaudita da centinaia di persone, ma naturalmente non mi era concesso in quanto donna di ricca famiglia.
Crescendo finii per allontanarmi sempre dipiù dalla mia famiglia; mi rintanavo nella mia stanza per tutto il giorno a leggere o cantare, uscendo solamente durante i pasti o per passeggiare nel mio giardino, naturalmente scortata dalla mia cameriera personale.
Mio padre e mia madre mi ripetevano continuamente che sarei dovuta uscire a socializzare, che le ragazze della mia età avevano altri interessi e che pianificavano fin da piccole il matrimonio, mentre io gli apparivo distante anni luce dalla normalità. La verità era che avevo delle passioni, ma non mi era concesso mostrargliele perché non le avrebbero mai condivise. Con gli anni la mia passione per il canto non si spense, anzi, crebbe a dismisura. Dovevo stare attenta a non farmi udire mentre mi allenavo: le poche volte che mio mi aveva trovata ad esercitarmi, mi aveva fatto un discorso sul dovere che ha una giovane donna come me.
Mio fratello maggiore, Charles, non si era mai espresso, ma sapevo che nel profondo di sé rispettava i miei desideri.
Due anni fa, durante la stagione del 1816, la situazione prese una svolta decisiva; il mio debutto e la presentazione alla Regina Regina Carlotta si avvicinavano, così come crescevano l’ansia e l’oppressione che provavo. Mia madre era molto più emozionata di me all’dea e non riusciva a capire cosa mi tormentasse.
Non si rendeva conto che trovare marito non era la mia più grande ambizione e che non mi importava essere presentata a corte. Per lei i miei desideri erano trasparenti e non provava nemmeno un briciolo di empatia nei miei confronti.
Il giorno antecedente al mio debutto volli parlare alla mia famiglia: in quel momento più che mai mi sentivo diversa di fingermi una persona diversa da quella che sono.
Quella sera eravamo tutti riuniti in salotto; io mi ero preparata mentalmente un discorso in cui annunciavo che avrei preso parte a un’audizione per entrare a far parte del corpo di canto del Royal Theatre. L’opinione di mio padre era quella che temevo maggiormente: con lui avevo il rapporto più complicato e ci scontravamo ad ogni
minima stupidaggine. Ad ogni modo, era convinto che avessi abbandonato il mio sogno di diventare una cantante lirica dato che non mi era permesso, ma si sbagliava. Nonostante conoscessi l’opinione degli Sheridan, speravo che se avessi fatto valere le mie ragioni sarebbero riusciti a capirmi e a incoraggiarmi, ma non potevo sbagliarmi di più.
Quando terminai il mio discorso, mio padre urlò:
“Stai scherzando, Virginia, vero? Non posso credere che dopo tutti questi anni questa tua folle idea sia rimasta. Riuscivo a tollerarlo quando eri bambina, ma adesso decisamente no! Dopo tutti gli sforzi e le attenzioni che io e tua madre ti abbiamo riservato e dopo tutti gli studi che hai avanzato per diventare una donna rispettabile e colta, tu ci deludi così? Te lo ripeto per l’ultima volta: diventerai una moglie e una madre perfetta. Non ho intenzione di sentire un’altra parola, sono stato chiaro?”
Non l’avevo mai visto così arrabbiato.
Mio fratello tentò di aprire bocca, ma venne zittito dalle parole di mia madre: “Discorso chiuso, Charles! Ora è meglio che vi recate nelle vostre stanze in preparazione a domani.”
Il suo sguardo carico di delusione mi lasciò una sensazione amara in bocca; senza aspettare un altro attimo corsi in camera mia con le lacrime agli occhi. Rimasi a piangere e a riflettere fino alle tre di notte, finché non realizzai che non avevo più intenzione di ascoltarli. Mi ero chiusa in me stessa per troppo tempo e avevo sempre finto di essere qualcosa che non ero fino ad annullarmi, ma non avevo voglia di continuare così.
Se non ero ad inseguire i miei sogni, chi l’avrebbe fatto?
Nel cuore della notte, raccolsi i miei averi più importanti e fuggii da casa evitando la servitù.
Mi recai a casa di Lady Portia Avery: una donna che aveva lavorato come soprano per numerosi anni fino a diventare, non del tutto ufficialmente, la co-direttrice del teatro. Non era visto di buon occhio che una donna come lei lavorasse, ma aveva sempre prestato numerosi servigi al teatro dimostrando di essere degna dell’incarico. Tutti erano profondamente affezionati a lei.
Le avevo parlato già altre volte al termine di qualche spettacolo, ero certa che fosse la persona più giusta a cui raccontare della mia situazione.
Contrariamente a quando pensavo, decise di aiutarmi e di accogliermi in casa sua.
“So come ci si sente ad essere in trappola in una vita che non senti tua, obbligata a ricoprire un ruolo che odi e ad ascoltare le chiacchiere irrispettose e i giudizi delle famiglie londinesi. Ti aiuterò, cara, sei al sicuro sotto la mia protezione.” mi disse.
Quando ero scappata di casa lasciando solo una lettera, i miei genitori avevano deciso di rinnegarmi per scampare al disonore che gli avevo recato.
Portia mi stette accanto come non lo era mai stata la mia famiglia in tutta la mia vita. Mi aveva fatto da guida e mi aveva istruita permettendomi di esibirmi in alcuni spettacoli di poca importanza.
Grazie a lei realizzai quale sarebbe dovuto essere il comportamento di mia madre, ma nonostante questo non riuscivo ad odiarla; in fondo era stata lei a crescermi.
Ad ogni modo, eccomi qui a cantare e recitare l’opera più importante realizzata quest’anno dal teatro.
“Sei pronta; dimostra a tutti che si sbagliano su di te. Tutte quelle persone sapranno finalmente di che pasta sei fatta.” Mi ha incoraggiata Portia.
Ecco che sto realizzando il mio sogno e riconquistando il mio onore. Davanti a me c’è un vastissimo pubblico che ascolta incantato la mia voce e che, quando finisco di cantare, esplode in un enorme applauso. Sul mio viso appare un enorme sorriso di soddisfazione. Mentre studio il pubblico che mi sorride, scorgo nel palchetto con la posizione migliore del teatro tre volti che non vedevo da più di due anni: quelli di mio padre, di mia madre e di mio fratello che mi sorridono e applaudono più forte di tutti.
Le lacrime mi salgono agli occhi e io restituisco loro il sorriso. Nonostante tutto, loro sono qui ad assistere al mio spettacolo, e io mi sento finalmente orgogliosa di me!