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Marco Balzano: tra memoria, guerra e il suo nuovo romanzo Resto qui

Aggiornamento: 1 mag 2024


Marco Balzano, scrittore, poeta e professore di lettere ospite nel nostro istituto il 23 gennaio ci racconta di sé e del suo romanzo “Resto qui” con un’interessantissima intervista, trattando i temi della memoria, della guerra e dell’importanza della parola.

COSA VUOL DIRE PER LEI ESSERE SCRITTORE?

In questo mi trovo piuttosto d’accordo con quanto diceva Ungaretti, credo infatti che lo scrittore sia colui che vede ciò che è sotto la superficie e lo riporta alla luce. Inoltre scrivere mi fa pensare di vivere più vicino alla realtà senza venire trascinato dagli eventi.

COME È NATA L’IDEA PER IL ROMANZO “RESTO QUI”?

Come spesso mi accade, l’idea per scrivere mi è venuta da un’immagine, e in questo caso è quella del campanile sull’acqua.

Un giorno, sbagliando strada, sono finito a Curon, ho visto il campanile sull’acqua e ho subito voluto saperne di più sulla storia di quel paese sommerso. Per prima cosa mi sono accertato che nessuno avesse già scritto di questo luogo, dopodiché mi sono informato sulla sua storia e infine vi sono tornato per chiedere alla gente del luogo che ha vissuto gli avvenimenti in prima persona di raccontarmeli, ma nessuno voleva farlo. Dopo l’uscita del libro, sono rimasto molto colpito dal ricevere molte lettere dai figli degli abitanti di Curon che mi dicevano che i loro genitori non avevano mai raccontato la storia proprio perché questa li faceva stare male anche a distanza di decenni.

Per fortuna si sono presentati cinque testimoni che mi hanno mostrato i luoghi più importanti della storia e mi hanno raccontato il proprio vissuto. I testimoni sono essenziali in un romanzo che parte da un avvenimento storico per non cadere nei clichés.

DEFINIREBBE “RESTO QUI” UN ROMANZO STORICO?

No, non lo definirei un romanzo storico a tutti gli effetti. Manzoni diceva che per scrivere un romanzo servono due storie e nel caso di “Resto qui” una è quella di Trina e sua figlia e l’altra è quella della guerra e della diga. Dunque certamente ci sono temi storici, ma a me non interessa come noi attraversiamo la storia, bensì come la storia attraversa noi. Altrimenti scriverei libri di storia.

PERCHÉ HA SCELTO DI SCRIVERE IL ROMANZO DAL PUNTO DI VISTA DI UNA DONNA?

In realtà avevo iniziato a scrivere con la voce di Erich, ma sembrava l’ennesimo romanzo di resistenza, poi un giorno, mentre indagavo sulla storia di Curon ho visto una fotografia che raffigurava il momento in cui sono state bombardate le case del paese. All’interno di una di queste si vedeva una donna in ginocchio sul tavolo della cucina mentre la sua casa, insieme a tutto il paese, stava venendo allagata. La donna stava urlando contro chi voleva portarla via da casa sua e si rifiutava di andarsene. Si chiamava Trina e aveva 84 anni.

Ho scelto di dare la voce del protagonista a lei, ad una donna che punta i piedi per terra anche quando la terra non c’è.

COSA SUCCEDE ALLA FIGLIA DI TRINA?

Non lo so, lascio al lettore la possibilità di immaginare la sua storia. Lascio spesso il finale aperto nei miei romanzi perché il lettore possa immaginarsi la fine e gli rimanga maggiormente in mente la storia.

QUAL È IL RUOLO DI ERICH NELLA STORIA?

Per tutto il romanzo Erich cerca di cambiare le cose, prende posizione contro i fascisti, i nazisti e infine i costruttori della diga. Nel fare ciò, è sempre da solo, tutti rimangono a guardare, vogliono convincersi che tutto vada bene. Ed è proprio da questo che nasce il male, come dirà il capo cantiere, il male esiste perché c’è chi sta a guardare. Questa purtroppo è una di quelle cose che non passa mai, era così allora, ma è così

anche oggi.

COSA SUCCEDE AGLI ABITANTI DI CURON ALLA FINE DELLA STORIA?

Si sentono soli, spaesati. Sono entrati in guerra come austriaci e ne sono usciti come italiani, ma ormai non sentono di appartenere a nessuna delle due nazioni. Molti si rifiutano ancora oggi di imparare l’italiano e tra di loro parlano solo uno stretto dialetto tedesco.

A TAL PROPOSITO, LA QUESTIONE DELLA LINGUA È CENTRALE NEL ROMANZO, COSA PUÒ DIRCI?

All’interno della storia assistiamo a ciò che accade quando un qualsiasi dittatore si impone su un popolo. La prima cosa che viene fatta è proprio imporre la nuova lingua, ma perché? Perché quando perdiamo la nostra lingua perdiamo la possibilità di esprimerci, di farci sentire, di opporci. La parola è uno strumento di libertà, per questo è la prima cosa che il fascismo toglie agli abitanti di Curon.

Le prime forme di resistenza sono state organizzate nelle scuole clandestine, gestite interamente da maestre, donne che, a rischio della vita, hanno scelto di continuare ad insegnare ai bambini sia a leggere sia a scrivere per garantire loro la libertà di esprimersi e di imparare.

Trina non solo è una maestra clandestina ma, verso la fine della storia, insegna anche ad Erich l’italiano.

Credo che questa decisione sia una grande dimostrazione d’amore: in questo modo Trina dà ad Erich le parole per lottare e per vivere.

“UNA STORIA NON DURA CHE NELLA CENERE”, PERCHÉ HA SCELTO DI RIPORTARE QUESTO VERSO DI MONTALE?

Montale dice: “Una storia non dura che nella cenere e persistenza è solo l’estinzione”. Ho riportato questo verso perché credo che spesso abbiamo bisogno di perdere le cose per farle nostre e renderci conto di quanto siano importanti: questo è ciò che accade nel romanzo.

“ANDARE AVANTI È L’UNICA DIREZIONE CONCESSA, ALTRIMENTI DIO CI AVREBBE MESSO GLI OCCHI DI LATO. COME I PESCI.” C’È UNA STORIA DIETRO ALLA FRASE DELLA MADRE DI TRINA?

In realtà l’ho inventata, ma credo sia vero, non possiamo passare la vita guardando al passato o non andremo mai avanti.

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