Riccardo Testa 5C LL
Questa tanto discussa “cultura dello scarto” rappresenta una minaccia per l’uomo sia dal punto di vista della salute, sia per una questione di valori morali. Il tema riguarda la società contemporanea, ma non sono da tralasciare esempi di questo problema che si sono visti applicati in società ben distanti da quella attuale.
Varie civiltà ormai ricordate solo nei libri di storia praticavano una selezione, con conseguente scarto immediato, dei neonati in base alle loro caratteristiche fisiche. Un esempio è il tristemente leggendario abbandono dei neonati a Sparta, oppure, sempre nella società spartana, la successiva selezione durante l’”educazione” militare.
La natura umana, generalmente la natura animale, non lascia spazio agli individui non ritenuti utili alla sopravvivenza e al progresso della specie. Nei branchi, il più debole viene lasciato a sé stesso, colui che rappresenta una minaccia viene allontanato ad emarginato e non si torna indietro ad aiutare i dimenticati.
È una realtà piuttosto crudele, alla quale l’uomo cerca ancora oggi di allontanarsi tramite leggi che garantiscono a tutti stessi diritti e stesse opportunità; ma è davvero così?
L’evoluzione dell’uomo e un progressivo allontanamento dalla tendenza animale e primitiva a lasciare indietro i più sfortunati sono innegabili: non siamo più un branco di australopitechi senza il senso di collettività sociale, anche a livello mondiale.
Tuttavia la storia purtroppo non perdona e queste “ricadute primitive” si sono verificate in contesti come le dittature, che facevano utilizzo di campi sia di concentramento che di sterminio. Nonostante abbia usato verbi al tempo passato è da ricordare che questa triste pratica è ancora in uso in alcuni paesi, come la Cina e i campi uiguri; qui si continua purtroppo a sostenere l’innata “cultura dello scarto”, dalla quale purtroppo non riusciamo ad allontanarci, a causa di scellerati che prendono il potere e impongono le loro folli interpretazioni di una cultura del più abile, del modello da seguire.
La cultura dello scarto interessa ogni settore, anche quello materiale, dello scarto vero e proprio inteso come rifiuto. Sale a galla l’ipocrisia di molti paesi occidentali che si autodefiniscono leaders del progresso, aspiranti alla sostenibilità ambientale, praticanti di democrazia.
La crescita demografica di questi paesi avvenuta nel secolo scorso e i progressi nel campo industriale hanno introdotto cicli frenetici e terribilmente rapidi ai processi della produzione e consumazione. La popolazione aumenta, la richiesta di un prodotto aumenta, ma le risorse più
durature e pregiate costano e cominciano a scarseggiare; quindi si cerca una soluzione più economica e la si impiega in una produzione massiva. Il prodotto però è meno duraturo ed ecco che comincia il problema dei rifiuti.
La soluzione? Riciclare. O forse no.
Il riciclo può essere un processo troppo costoso ed impattante a livello ambientale, che a sua volta può produrre scarti, entrando in un circolo vizioso. Molti paesi occidentali hanno ben pensato quindi di trarre profitto anche da questa situazione, vendendo i propri rifiuti ai paesi del terzo mondo che impiegano tecniche di riciclo devastanti a livello ambientale; il prodotto poi ottenuto viene nuovamente rivenduto ai paesi occidentali a basso costo in quantità spaventose, lasciando nel degrado milioni di persone durante questo processo.
Un esempio è il ciclo di vita dei capi d’abbigliamento dei cosiddetti brand “fast fashion”: tonnellate di vestiti usati vengono inviati dall’occidente a paesi come l’India, che non dispongono di complessi industriali sofisticati a norma di legge, ma di campi e baracche a cielo aperto dove i tessuti vengono trattati con sostanze chimiche nocive da operai senza dispositivi di protezione e con turni di lavoro disumani. I tessuti trattati vengono poi ritinti e cuciti da altri operai e poi rispediti in occidente.
Tutto questo perché svolgere il processo di riciclo in centri appositi nei nostri paesi e a norma di legge sarebbe troppo costoso e danneggerebbe l’economia. Molto meglio quindi mettere a rischio la vita di milioni di persone esponendoli a pericoli per la salute e fornire un prodotto di scarsa qualità che presto subirà un altro riciclo o che verrà direttamente gettato in discarica, che è forse la migliore delle ipotesi, piuttosto che finire in corsi d’acqua e poi in mare.
La situazione è complessa e una vera soluzione non si può applicare senza un profondo cambiamento dei sistemi capitalistici, ma non è questo il punto e ci si dileguerebbe in discorsi estenuanti.
Il concetto si estende principalmente a una sfera più filosofica e morale, di cui ha senso trattare nel momento in cui lo “scarto” non avrà più connotazioni negative, ma positive, anzi neutrali. Lo scopo non è quello di evitare lo scarto, ma di intuirlo come una naturale conseguenza di un dispendio, che può rappresentare un’opportunità di reimpiego utile alla collettività.
Fino ad allora, questa ipotesi risulterà pura utopia.