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Grandi e Piccoli nella Guerra

di Matilde Milani e Leone Laudicina 4BLs


La guerra ha sempre avuto un ruolo centrale nella storia umana. Partendo dai piccoli conflitti fra uomini primitivi, passando per le crociate e arrivando alle guerre mondiali e

d’indipendenza dei giorni nostri.

La visione che si ha di essa è varia e dipendente dal singolo individuo e dalla sua sensibilità, ma anche da elementi culturali o specifici di un determinato tempo. Per alcuni essa è un’opera necessaria al progresso e all’avanzare della storia, come spiegato da Hegel che nella sua “filosofia della Storia” trova nella guerra l’antitesi necessaria per l’evoluzione dell’uomo e degli stati. Altri invece la criticano, descrivendola come mezzo di sola espressione della superbia dei regnanti e generali che, mossi dall’orgoglio o dall’identità, scendono in battaglia.

A prescindere dalle possibili opinioni, la guerra mantiene delle caratteristiche che possono essere definite anacronistiche, ovvero comuni a ogni guerra di ogni tempo. Una di queste è la dinamica del piccolo e del grande. Risulta evidente come nella guerra le decisioni vengano prese da funzionari, regnanti e generali, ma è anche evidente come tali decisioni non vengano messe in pratica da loro, ma da un esercito, più o meno grande. Se quindi da un lato abbiamo una piccola somma di individui che dirigono e organizzano, portando avanti le proprie idee e proposte, dall’altro abbiamo un numero ben più elevato che non combatte più per i propri ideali, me per la propria sopravvivenza. Questa dinamica, per quanto critica, non può essere ignorata, neanche da coloro che hanno della guerra un’opinione positiva. È lo stesso Hegel a dire che la volontà dello stato è superiore a quella dei suoi cittadini. Ma perché i cittadini partecipano alla guerra, pur conoscendone gli orrori?

Le risposte sono molteplici.                                                                                          

L’interesse economico e la possibilità di arricchirsi o elevare la propria condizione sociale possono essere le motivazioni per cui molti soldati si sono arruolati. Specialmente nel passato, molti uomini di umile estrazione partecipavano alla guerra sperando di poter ottenere qualche bene attraverso le razzie, molto comuni, specialmente nelle guerre delle civiltà antiche o nel medioevo. Non erano solo i poveri, però, a ragionare con questo fine di guadagnare, anche i componenti delle classi più agiate scendevano in battaglia sperando nel riconoscimento del proprio valore militare attraverso nomine e cariche di prestigio.                                                                                                                                                Un’altra risposta può essere che questi lo vogliano fare perché lo considerano giusto. In questo caso entra in gioco il potere manipolatore dello stato sui propri cittadini. Con un abile e ingegnoso uso della propaganda i cittadini possono essere facilmente portati a determinate idee, senza che se ne accorgano. L’uomo comune viene bombardato di simboli, slogan e frasi ridondanti da cui non può sfuggire.

Manifesti, cartelloni, discorsi o programmi televisivi, ma anche la semplice educazione, sono tutti mezzi con cui lo stato può portare i suoi cittadini ad accettare, anzi, volere una determinata cosa, in questo caso la guerra. Il confronto con la realtà dei fatti è però assai più duro.

La forza della propaganda è limitata nei vincoli dell’illusione, ma è nulla di fronte all’esperienza. Le idee di patriottismo o di odio con cui i soldati partivano volontari al fronte venivano subito a scontrarsi con le scene orrende della guerra. Insieme a ciò, la realizzazione di essere stati raggirati e portati inconsciamente in quel punto. Il mondo cinematografico è pieno di situazioni del genere.

Prendiamo il film “niente di nuovo sul fronte occidentale” o uno di quelli che lo ha maggiormente ispirato “va’ e vedi”. In entrambi i casi dei giovani protagonisti, mossi da un forte sentimento di identità nazionale, decidono di armarsi e partire per il fronte, che nel primo era quello tedesco della prima guerra mondiale, e che nel secondo era quello partigiano sovietico contro l’avanzata nazista della seconda guerra mondiale. In entrambi i casi l’impeto iniziale è rapidamente raggiunto dalla visione e comprensione della reale natura della guerra e dal trauma che tale visione si porta dietro.                                           

La risposta più banale, ma forse più comune, alla domanda precedentemente esposta è che essi lo facciano controvoglia. Non è segreto che moltissimi stati obblighino in situazioni di grande necessità i propri cittadini a partecipare ad una guerra. In questo caso la volontà delle singole persone è obliterata, e la fiducia verso il proprio governo viene a meno.

Questo è l’esempio di maggiore chiarezza espositiva della dinamica del piccolo e del grande. Un grande orgoglioso e superbo controlla direttamente una massa di pedine a proprio piacimento e secondo le proprie idee o ideali ed un piccolo che è costretto da una forza superiore ad agire e a subire la realtà di uno degli atti più atroci mai concepiti dall’essere umano. Nei tempi recenti abbiamo avuto svariati esempi di chiamate alle armi improvvise e di migliaia di soldati costretti al conflitto. Quello più culturalmente influente è sicuramente quello della guerra fra Vietnam e Stati Uniti, cominciata nel 1955 e durata vent’anni.

Svariati  film si sono basati su questo argomento. Uno dei più celebri è “Full Metal Jacket” del celeberrimo regista Stanley Kubrick. Questa idea di obbligo, di ostilità e di asimmetria di potere è perfettamente riassunta nella figura di “palla di lardo”, un giovane cadetto che, stanco dei soprusi del proprio comandante, si uccide dopo avergli sparato.  

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